Genowa Genowa 

Gianni (Giowanni) Fenzi è nato a Rovigo (Rowigo).
Trasferitosi ragazzo a Genova (Genowa) vi ha compiuto studi sommari e inutilmente eclettici.
Dopo un quadriennio all’Olivetti (Oliwetti) entra nella grande famiglia del Teatro da cui dopo trent’anni non si è ancora separato anche se numerose sarebbero state le ragioni e/o occasioni per farlo.
Alterna con ostinazione il mestiere dell’attore e quello di regista non preoccupandosi del risultato. In seguito alle cicliche crisi del Teatro si ricicla con la piccola narrativa non preoccupandosi del risultato.
Continua a vivere con tenace inconsistenza a Trieste, preoccupando del risultato chi gli sta vicino.
– quarta di copertina, brano tratto da Rowigo Rowigo, 1998

Introduzione di Luigi Squarzina

PER LUI
Rowigo Rowigo nel 1998, ora Genowa Genowa. L’origine del misterioso titolo Rita e Eugenia la conoscono, Gianni non aveva davvero bisogno di spiegarla a me, e trovo giusto farne parte ai non iniziati. Deriva da un mezzo flop che ci coinvolse entrambi, uno dei pochissimi in una lunga carriera comune baciata dalla fortuna. In breve. Nel 93 Gianfranco D’Angelo, allora numero uno della TV berlusconiana in Drive in di Antonio Ricci, voleva offrire una buona occasione alle due figlie Daniela e Simona che recitavano in TV con lui, e scovò un successo di Broadway un “musical da camera” a quattro personaggi scritto da J.Harman e musicato da K.Herrmann, primo tempo nella Vienna di Schnitzler, secondo tempo attuale a New York e in gita al mare. Il Cavaliere non gli negò il suo appoggio e finanziò lo spettacolo al 50%. D’Angelo e le due ragazze, brave e volenterosissime, volevano “il meglio”, e lo ebbero. lo non so proprio se fossi “il meglio” nel mio mestiere, ma certo lo erano, ognuno nel proprio specifico, i membri dello stato maggiore che radunai insieme con Gianni collaboratore alla regia e con Lucio Ardenzi organizzatore: da Enrico Vaime adattatore del testo a Umberto Bertacca scenografo e costumista, a Mario Serio direttore d’orchestra, a Maurizio Micheli e Massimo Bagliani in scena con Daniela e Simona, nonché la migliore insegnante italiana di canto per loro. La preparazione fu oculata, l’Ufficio Stampa fece faville. Ma il testo, molto fine, era altrettanto tenue, le canzoni gradevoli ma non trascinanti, e lo spettacolo si dimostrò impari ai grandi teatri del giro di Ardenzi, specialmente ai due teatri berlusconiani, il Manzoni a Milano e il Giulio Cesare a Roma. Il pubblico venne poco, i critici furono tiepidi e alcuni feroci contro un’impresa targata sia pure indirettamente Fininvest. Renzo Tian si dimostrò benevolo sul Messaggero, ma non c’era niente da fare e il Cavaliere ci rimise di suo svariate centinaia di milioni (di lire, ovviamente) senza batter ciglio, e D’Angelo perse altrettanto. “Ecco qua” diceva a se stesso Gianni quando una cosa non era andata nel verso giusto. Comunque, una eco del titolo, che i grammatici definirebbero “iterativo”, risuona ora dalle copertine di queste memorie non senza la consueta autoironia dell’autore. II raddoppio delle y in w completa burlescamente l’operazione, e annunzia lo spirito del libro.

Lontanissimi sembravano allora i nostri tre lustri genowesi, 63/76, iniziati sul mattino dei movimentati e movimentistici Sessanta per concludersi al tramonto dei terremotati Settanta: durante i quali, con la forza e la sicurezza che mi dava quell’animatore impareggiabile che fu Ivo Chiesa, avevo portato via Bacigalupo a raggiungere via Rovello e spesso a farle mangiare la polvere. Nessuno Stabile italiano aveva il nostro numero di abbonati. Nessuno aveva radunato un gruppo veramente stabile di attori così straordinari legati da un contratto triennale, e nessuno poteva vantare un Trio altrettanto capace delle più atroci burlette, in scena e in privato, come il gruppetto “Gianni – Omero – Eros”. Nella compagnia Gianni con il suo spiritaccio indipendente e caustico era un elemento di coesione, e gli fu via via riconosciuta dagli altri una autorità grazie alla quale nel ’69 formò e capeggiò uno dei primissimi ensamble cooperativi, Teatro Aperto, tanto “professional” quanto era stata “amateurish” la Cripta di cui parlerò. Esordì con una sua ottima regia, L’eccezione e la regola, affiancando lo Stabile come la cooperativa di Mauro Carbonoli a Milano. Vi debuttò fra gli altri Giampiero Bianchi. L’amico perduto. Quello che distingueva il grande talento di Gianni era lo humour che si sprigionava da lui sia recitando sia coniando boutades e parodie (compresa la mia). Era stato con me dall’inizio; si segnalò ad un provino nel ’63, venne subito inserito nella tourneè del Diavolo ed il buon Dio e poi nel Troilo e Cressida. Aveva dichiarato la sua provenienza olivettiana, una breve carriera in ascesa, ma a me non parlò né allora né mai degli anni che aveva già trascorso a Genowa con la famiglia rowigotta. Su di essi il libro è ricco di pagine saporite, nuove per me, del tutto prive di compiacimenti memorialistici, sulle più brillanti delle quali tornerò alla fine. Quello che Rita e Eugenia aspettano da me, se ho ben capito, qualcosa sul periodo dello Stabile, cui ho appena accennato, e mi pare di avere toccato l’ essenziale, cioè l’animo con cui il loro marito e papà si addentrò in quello che sarebbe stato il suo mondo di lavoro: un mondo possessivo che lascia poco tempo al resto (infatti i veri affetti per lui vennero più tardi) ma che per lui concretava una vocazione sviluppatasi precocemente in modo, naturalmente, anomalo, nella Cripta, uno spazio dove lui e un gruppo di coetanei avevano messo su un quasi – palcoscenico per “serate” pseudo esistenzialiste con seguito scopereccio. Avanguardia autentica era invece quella europea portata sotto una Banca da Dado Trionfo, di cui quei giovani erano spettatori. Quando nel ’76 mi chiamarono a dirigere lo Stabile romano fu Gianni che mi si propose subito (“Vengo con te al Teatro di Roma”). E cominciò un’altra avventura, ’76/’83, che non è il nostro oggetto. Dirò soltanto, ed è già tutto, che Gianni mi fu prezioso in un ambiente dove non mancavano certo i trabocchetti (chiedere ad Anita Blasi, fidatissima segretaria…).

Mi prendo spazio per un ricordo speciale. Gianni era al mio fianco nella cabina di regia sopra la gradinata centrale e il campo dello Stadio Olimpico da dove dirigevo (anzi “comandavo”, committenza e competenza erano degli alti gradi militari oltre che del CONI) il grande spettacolo per la cerimonia inaugurale dei Campionati Mondiali di Atletica, agosto/settembre ’87; per un’ ora, mai noiosa, si susseguivano, si alternavano, si incrociavano in contemporanea, decine dei migliori gruppi folcloristici italiani, dal Piemonte alle Puglie, dall’Alto Adige alla Sicilia e alla Sardegna, scacchi viventi e sbandieratori, tornei e danze vorticose, giochi d’amore e duelli eccetera. Responsabile dell’immenso palcoscenico era Carlo Maresti, principe dei direttori di scena, prestatomi da Garinei e Giovannini. Sbucando da due lati, dagli spogliatoi e da una impalcatura addobbata, i gruppi dovevano sfilare, raggiungere il loro spazio, prodursi insieme agli altri, ringraziare e uscire al suono registrato delle loro musiche; in una fossa Benedetto Ghiglia mandava il nastro in continuità spietata, e io da lassù dovevo
dare per radio entrate e uscite con esattezza, non esagero, al decimo di secondo. Gianni accanto a me ogni volta mugolava “ci siamo” e io davo gli ordini. Più di sessanta minuti da cardiopalma. A conclusione il campo era invaso da centinaia di Pinocchietti in bianco e rosso, le gradinate balzavano in piedi per l’entusiasmo oscillando nello “Ola Ola” mentre in cielo, a sorpresa, saettavano le Frecce Tricolori. La squadriglia era partita al mio “via!”, guai a essere minimamente impreciso! Quando gli aerei si allontanarono lasciando scie di fumo con i colori olimpici io e Gianni ci abbracciammo stretti senza più fiato e condividemmo la nostra soddisfazione con Andrea Lala e la sua bravissima moglie, Stefania Baroni, ai quali si dovevano l’iniziativa e il progetto. Non il minimo errore in un’impresa da far tremare le vene e i polsi a Grassi e Chiesa, che mi valse i complimenti caldissimi delle autorità e quelli compassati di Cossiga, Presidente della Repubblica, dopo, s’intende, l’abbraccione con Silvia e i bacioni con Anna Isabella che non aveva ancora dieci anni.

Genowa Genowa abbonda di spunti notevolissimi, segnalo quelli che mi hanno colpito perché mi sono riusciti nuovi, a partire dall’insediamento fra i ‘diversi’ (tali sono i liguri) e il tran tran di una famiglia in cui tutti si vogliono un gran bene e si aiutano a vicenda a “ricominciare”. Ci sono gli alti e bassi del giovanissimo neo-olivettiano, di negozio in negozio e di pianerottolo in pianerottolo a piazzare la Lettera 22 e i calcolatori, poi in ufficio fino a raggiungere posizioni di responsabilità. Ci sono le amicizie sparse, c’è il sesso fugace con le impiegatine abbordate ai binari di Brignole, che elargiscono la “sana voluttà senza tormenti” cantata da Guido Gozzano; c’è la passioncella erotica con una bella farmacista troncata dall’arrivo del marito con fugone del Nostro reggendosi le mutande, finché spunta il Primo Amore Quasi Eterno. E c’è la sorprendente osservazione, quasi antropologica, di una micro-società di personalità ‘alternative’ o che tali si vogliono per “esserci”, giovani o ostinatamente tali, come se ne trovano in quasi tutte le città, qui caratterizzata dal rifiuto dell’iperprofessionismo trionfante di Chiesa, reo fra l’altro di avere chiamato al proprio fianco un foresto: cascami di scontri precedenti per il controllo dello Stabile, nonché strascichi della incompatibilità fra comunisti e socialisti. Chiuso nella roccaforte di via Bacigalupo io avvertivo solo vagamente questi fremiti che non capivo e non mi impensierivano. E ancora e ancora, scorrendo i paragrafi insaporiti da aggettivazioni sardoniche degne di un Arbasino ruspante, non mancano le ‘illustrazioni’. Proprio questo sono le caricature della scuola schizzate con mano banvilliana – la professoressa di italiano formosa e superciliosa che non perde sussiego neppure quando Gianni la sorprende in un cinema fra le braccia di un forzuto, il prof di chimica che non gli perdona il gioco di consonanti fra la “muffa” citata nella lezione e la “mussa”, equivalente alla veneziana “meneghella”, il due di spade del gioco a coppie (Gianni gelosissimo di Maria Grazia Spina) che nel ’68 sarebbe stato il culmine del nostro Una delle ultime sere di Carnovale – e i ritratti chiaroscurati con nostalgia di qualche amico, Fabrizio (“Questa di Marinella è la storia vera…”), Paolo, futuro Fantozzi, prelevato da Maurizio (Costanzo) per la TV snocciolando a Chiesa i cinque milioni (di lire, s’intende) del contratto – cifra ampiamente riguadagnata dai due. A proposito di De André. Gianni condivideva la mia passione per i cantautori, veri continuatori della grande poesia ligure del Novecento, spuntati e fioriti in riva al Tigullio come in un vivaio. Io cercai di persuadere il mio condirettore ad aprire lo Stabile a quella straordinaria generazione, ma Ivo credeva che il teatro non dovesse mischiarsi ad altro, e dovetti accontentarmi di far creare a Gino Paoli le canzoni del juke-box per la mia Emmeti, 1966. Un degno finale del libro, purtroppo incompiuto, è la rivolta di Genowa contro il progettato Convegno Nazionale del MSI che nel ’60 portò alla caduta del governo Tambroni (così nell’inverno 1900 lo sciopero generale della città aveva causato la caduta del governo Saracco, donde nel 1966 il nostro Cinque giorni al porto). La descrizione di quel pomeriggio d’estate è del miglior Gianni partecipe e testimone: appassionata, scanzonata, vibrante, via XX Settembre e Piazza De Ferrari ribollono di scontri, i camalli venuti su dai caruggi toreano coni celerini importati da Padova nelle loro jeep li rovesciano, li uncinano, li tuffano nel fontanone della Piazza…
E con questi puntini ti salutiamo, Gianni, nostro Gianni, con affetto e tristezza eppure pronti a sbottare in una delle risate liberatorie che tu sapevi provocare.
LUIGI SQUARZINA
GIUGNO 2007

Terza di copertina di Bruno Lubis

Ho voluto bene, abbiamo voluto bene, a Gianni per la sua gentilezza. Non era affettatazione, era proprio gentilezza d’animo: ti diceva le cose con franchezza ma con gli occhi buoni e, magari, con un sorriso in finale. Leggete gli schizzi della sua vita che propone in Rowigo e poi in Genowa e capirete cosa si vuol dire in queste righe amare come il destino. Era una sera di maggio, si era a cena con Lino e Gianni si lamentava del mal di schiena. Lo invitavo a praticare allungamenti mentre subdolo cominciava il suo calvario. Nei primi giorni di luglio Gianni entrò in ospedale e quella sera stessa sulle Rive di Trieste andava in scena il primo degli immaginari incontri con viaggiatori antichi che il regista Gianni Fenzi aveva architettato, con l’Adriatico sullo sfondo.
All’ospedale mi parlava di questi dottori che non capivano bene, loro, di come guarirlo. “Mi danno questi antidolorifici che mi fanno perdere qualche colpo… ma so benissimo chi sei… aspetta che sto meglio e
andiamo in Istria assieme a camminare.” Era già la morfina, il suo fisico da bon vivant si affilava, il cancro voleva vincerlo e lui și preoccupava di non dar troppo pensiero a chi veniva a trovarlo e che Rita non si allarmasse. Gianni ha resistito alla morte fin che ha potuto. Poi ha chiuso pian piano la sua porta sul mondo.

Immagine di copertina: Lele Luzzati, Bozzetto per cortume di scena “Misura per Misura”.